Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Caro Ernesto
Vorrei partecipare ad un concorso indetto da Ponzaracconta il cui tema riguarda l’adottare un luogo, un periodo storico, un personaggio ecc.
Bisogna essere originali, si dice nel bando di concorso, la forma espressiva è abbastanza libera; parlando di questo con mio padre lui mi ha detto che a raccontare dei luoghi  e della storia dell’isola ci hanno pensato molti autori, riempiendo libri e libri, ma per essere brevi, concisi e originali bisogna inventarsi qualcosa di unico. L’unico, dice sempre mio padre, non può essere una falesia, una grotta perché dura molto di più di una vita umana e quindi noi uomini, non abbiamo vissuto e non vivremo le sue continue trasformazioni. L’unico non può essere che un uomo: il quale può vivere anche cent’anni ma in questo brevissimo lasso di tempo nasce, cresce, si riproduce, muore e caratterizza la sua esistenza in relazione ai i suoi simili.
Ma tutti sanno fare questo, nascere, crescere, riprodursi e morire, anche in una piccola isola come Ponza; solo pochi, però, sanno essere felici, sanno vivere la loro vita pienamente, intensamente, in questo teatrino in mezzo al mare. A questo punto mio padre ha parlato di te.
Quindi conoscere la Tua vita, anche se in forma sintetica, mi ha molto interessato. I giovani di oggi non vivono l’isola, semmai la subiscono o la consumano, ma non la sanno apprezzare. Vivere l’isola non significa solo esercitare la caccia, la pesca, l’allegra  scampagnata; significa anche la condivisione di una vita sociale, morale con l’altro isolano.
Adesso il ponzese ama la sua isola a modo suo, dice che è la più bella del mondo ma poi aggiunge “peccato che su quest’isola ci siano i ponzesi”.
I Ponzesi non sono più felici, se mai lo sono stati; sono sicuro che tu sei stato un Ponzese fiero di essere nato su questo scoglio, ma anche fiero di essere vissuto fra la tua gente.
Ecco, è questo ciò che voglio descrivere in forma di intervista: la vita di un uomo, vissuta interamente e lungamente nella sua terra e scoprire il segreto dell’essere felici isolato tra isolani.
Con affetto
Francesco Ambrosino
Intervista  a  Ernesto
Mio padre mi accompagna alla casa di Ernesto.
Sulla porta non c’è il campanello per cui bussiamo circa cinque minuti; poi Luciana, la moglie, ci sente e ci fa entrare.
Troviamo Ernesto in piedi, sorridente; ci introduce nella stanza dove vive, in mezzo alle carte, ai libri, con la stufa accesa, con le finestre e le porte chiuse, respira male e si difende come un uccellino in fondo al suo nido.
Ovviamente Lui già sa il motivo della visita, perché precedentemente gli ho consegnato una lettera, per cui ci sediamo. Luciana  offre a me dei cioccolatini e a mio padre un whisky.
D – Per cominciare Ernesto, vorrei sapere quali sono state le tue origini, dove sei nato, da quale famiglia:  insomma i tuoi primi passi nel mondo come figlio e poi studente
R – Sono nato a Ponza, da famiglia paterna marinara e da famiglia materna contadina. Mia madre e le sorelle, tre, hanno avuto un lungo periodo di vita sotto lo stesso tetto (a casa di zia Anna).
Sono nato e cresciuto sulla Dragonara, in una famiglia allargata. Il matrimonio tra i miei genitori fu molto contrastato dalla famiglia di mia madre, che non voleva che una figlia sposasse un marinaio. Mia madre fu addirittura legata ad una corda e calata nella piscina per farla desistere, ma lei la ebbe vinta e sposò il marinaio. Quando nacqui fui definito il figlio dell’amore. Dopo aver frequentato le scuole elementari a Ponza, venni dirottato, con mio cugino Giannino, a Salerno in un collegio dove, con fasi alterne, a causa dei bombardamenti degli aerei alleati, sono rimasto fino al 1946, quando mi diplomai maestro.
D – C’è qualche episodio che ha lasciato un segno per la formazione del tuo carattere?
R – Vedi Francesco, tu sai che i giovani come te hanno sete di conoscere, fanno mille domande agli adulti, cercano di leggere, viaggiare, sono curiosi, sono appassionati, si innamorano facilmente, poi a volte quando diventano adulti cominciano ad annoiarsi, diventano scettici, criticoni, egoisti, si chiudono a guscio nelle loro famiglie; bene io ancora oggi, malgrado gli acciacchi, e credimi sono tanti, mantengo questi pregi e difetti dei giovani e la mia vita è stata mossa da questi bisogni di conoscere, di incontrare di dare e di avere.
D – Tu eri un bambino basso d’altezza. Come hai superato questa difficoltà? Ti chiedo questo perché oggi i bambini che hanno un minimo difetto fisico, finiscono  facilmente nella lista dei diversamente abili: debbono essere sottoposti a visite e muniti di sostegno psico-fisico.
R – L’altezza non mi ha creato difficoltà. Basti pensare che ho fatto il servizio militare a Udine, con il grado di sottotenente; e poi Fanfani, piccolo (d’altezza), segretario democristiano, ad un giornalista che gli chiedeva: “Presidente lei non si sente in difficoltà quando sta al cospetto di uomini come il generale De Gaulle?” rispose:  “Assolutamente no, perché nella botte piccola c’è sempre il vino buono!”
D – Dopo il servizio militare sei tornato a Ponza a fare il maestro, nella tua isola in un contesto semianalfabeta. Cosa ti ha dato la scuola?
R- Congedato, tornai a Ponza e iniziai a fare il maestro, ho iniziato i miei rapporti con la scuola nel 1948, insegnando a Forna Grande che tu chiami Cala Feola. E da allora mi sono dedicato, senza fare sforzi e senza sudare le proverbiali “sette camicie” a questo meraviglioso lavoro.
Io considero insegnare alle scuole elementari un impegno di grossa responsabilità; è da lì che parte la costruzione della personalità dei futuri cittadini, è lì che si deve apprendere la magia di leggere e scrivere e fare i primi conti. La scuola mi ha lasciato lo sguardo dei tantissimi bambini che poi ho ritrovato adulti e sempre molto rispettosi. I bambini sono innocenti, genuini, spontanei e ti fanno passare ore di meravigliosa convivenza. I bambini mi hanno dato molto ed io ho fatto del mio meglio per meritarli tutti, dal primo all’ultimo. Paragono la scuola a un vecchio fabbro, e Ernesto ad un pezzo di ferro che veniva forgiato quotidianamente da tante esperienze.
Da tutti ho imparato e a tutti ho insegnato!
D – Ma tu sei stato il Maestro Ernesto non solo nella scuola, ma anche nella società. Mi puoi parlare dei rapporti con gli isolani, del tuo impegno sociale e politico?
R – Vedi, io ho sempre distinto il mestiere di insegnante da quello di maestro.
Si è insegnanti nella scuola, maestri soprattutto, nella comunità isolana.
Io, sin dal 1946, ho vissuto pienamente la vita dell’isola. Sono stato seguace dell’Avvocato Luigi Sandolo, socialista, e ho fatto politica attiva fino al 1992, quando il mio partito, il PSI, venne bombardato, silurato e affondato.
Sono stato sempre al fronte, non sempre ho vinto!
La più bella vittoria fu la chiusura della miniera. Una vittoria di Ponza, una vittoria della Comunità isolana. Se noi non avessimo lottato contro la “Piovra”, forse una parte dell’isola sarebbe stata divorata e tu non avresti potuto andare a giocare a pallone.
Figlio di marinaio, sono entrato a tuffo nel mondo della marineria ponziana, diventando un difensore d’ufficio. Non c’è storia in cui non fossi presente. Erano rari i casi in cui non venissi chiamato in soccorso. Di quei tempi non c’erano elicotteri o motovedette per il trasporto degli ammalati, per cui erano i nostri pescatori che si dovevano occupare anche di queste emergenze. Siccome il mio rapporto con i pescatori era di totale fratellanza e abnegazione, io ero il tramite tra la famiglia dell’ammalato e i capo-barca… Sicuramente avrai sentito parlare della chiusura del porto del 1975. Chiudemmo il porto con tutte le barche da pesca, dal fanale rosso al fanale verde, io ero a capo, andammo anche a Roma a parlare al ministero perché volevamo un porto sicuro. Alla fine fummo denunciati e in testa alla lista c’era il sottoscritto. Potrei continuare ma mi fermo qui.
D – Ernesto, mio padre dice che questa fratellanza, questa solidarietà tra ponzesi non esiste più.
R – Anche io noto, con sommo dispiacere, che la fratellanza e l’abnegazione sono scomparse perché è comparso il dio denaro.
Oggi questa comunità è basata più sui valori di una convivenza di convenienza che su quelli di un vivere civile. Ognuno, per il denaro che scorre come un ruscello, vive da single e pensa solo a se stesso. Non capisce che esistono gli altri che hanno i suoi stessi doveri e hanno, soprattutto, i suoi stessi diritti. Spetta a voi giovani cercare di modificare, attraverso la cultura, il senso civico di questa comunità.
D – Sei stato uno dei pochi che ha vissuto Zannone ai tempi dei Casati. Sei stato un cacciatore a Zannone, dove si faceva strage di quaglie: mi interessa conoscere quel piacere assoluto di essere un esclusivo ospite di gente ricca.
R – Frequentai Zannone perché amico del guardiano Silverio Iodice. Approfittavo dei miei rapporti con Giovanni Califano (Masaniello) e Silverio Conte (Facciabruciata) che, proprietari di barche e appassionati cacciatori, mi trasportavano da un’isola all’altra. Entrai, per il mio modo di comportarmi, nelle grazie di Lillina (moglie del guardiano) e di zia Elena (suocera). Divenni così di casa a Zannone.
Negli anni Sessanta conobbi, per essere un amministratore del Comune, Carlo Vignati, il capocordata di quel gruppo di industriali che prese in fitto l’isola di Zannone, creandovi una riserva di caccia. Nei miei frequenti raid ebbi occasione di conoscere quasi tutti gli affittuari, tra questi il marchese Camillo Casati e anche la signora Falarino. Il Casati quando stava a Zannone aveva e dimostrava una sola passione: la caccia. Usciva al mattino presto e rientrava per il pranzo; il tempo di cambiarsi ed era a tavola. La caccia era faticosa, ma soprattutto era appagante. Dopo pranzo usciva di nuovo per la caccia e rientrava all’imbrunire. Io escludo gli scandali a sfondo erotico-sessuale di cui si è narrato. Quell’isola era piena di occhi, c’erano i due fanalisti con le rispettive famiglie e la famiglia del guardiano, in quell’isola ci si riposava, si godeva in tutte le sue forme della bellezza di una natura incontaminata e ricca di doni. In quell’isola ero un cacciatore esclusivo ed uno dei pochissimi ospiti di persone amabili e molto cortesi.
Non lo nego Francesco, ho sempre fatto quello che mi è piaciuto, che è cosa diversa da quello che ti fa comodo!
D – Tu hai conosciuto tutti i più importanti ospiti che Ponza ha avuto. Puoi descriverne alcuni? Ma a me interessa conoscere qual’era la spinta, la motivazione, la volontà: cosa cercavi in quelle relazioni esclusive? In che modo queste conoscenze riempivano la tua esistenza e contribuivano a farti felice?
R – La mia ricchezza, il mio immenso patrimonio è formato dalla gente che ho avuto occasione di conoscere. E tra questa gente il primo posto spetta agli isolani; sono loro, gli abitanti che vanno dall’Incenso alla Rotonda della Madonna, che mi hanno reso popolare: non ho mai rinnegato la mia ponzesità. Essere di Ponza era ed è un valore aggiunto. Rispondo alla tua domanda in modo semplice e sintetico: l’unica mano che non ho stretto è quella di quel Signore che veste di bianco. Solo al Papa non ho stretto la mano.
A Ponza ho conosciuto, tra i tanti altri, un presidente della Repubblica, Cossiga; due presidenti della Camera, Casini e Fini; due presidenti del Consiglio, Andreotti e Craxi. Ministri, deputati e senatori non si contano. Fra i grossi personaggi esteri, che ho avuto l’onore di conoscere e di frequentare, ci sono i Reali del Belgio, che frequentano Ponza da più di venti anni. Due soggetti eccezionali, incredibili, semplicemente inappuntabili: per esempio, quando mi vedevano arrivare al bar, dove facevano colazione, si alzavano in piedi e malgrado il mio imbarazzo loro aspettavano che mi sedessi prima io. Per parlare di democrazia bisogna andare a scuola da maestri del genere.
Mi dicevano spesso che avrebbero voluto conoscere l’interno di Palmarola. Figurati la mia gioia: nella “mia Palmarola” anche i reali del Belgio! Avevo solo un timore: il Re aveva avuto un infarto, e portarlo ad arrampicarsi su Vardella mi riempiva di responsabilità.
D – Parliamo dell’amicizia: hai avuto veri amici? Quale importanza hai dato alla ricerca dell’amicizia?  Io credo che avrai avuto anche momenti tristi, ma che cosa ti ha aiutato a superarli: la tua forza d’animo, un’amicizia, la famiglia?
R – Io, sì, ho avuto amici, amici veri. Gente disposta e disponibile anche a sacrifici. Ho accertato questo in due terribili navigazioni, in una di questa c’era una tempesta con mare ’ncavigliato: grandi amici, grandi marinai, sono partiti per andare a prendere mio padre morto a Formia. Il Falerno e il Ponza non si erano mossi dai porti. Cose che non si dimenticano! Gli amici hanno messo sul tavolo le “medicine” adatte al mio fabbisogno.
Hanno sanato le mie malattie; nessun uomo è tanto uomo da poter stare senza amici.
Ricordati che per avere generosità, amicizia è necessario che tu metta a disposizione  del tuo prossimo la tua povertà. Cosa difficile ma indispensabile.
D – La famiglia, tua moglie, i tuoi figli, quale ruolo hanno avuto nella tua esistenza?
R – Per vivere si parte da se stessi, poi ci si sposa, si spera solo per amore, poi nascono i figli, il prolungamento della tua esistenza. Mia moglie è stata definita santa e martire; io, se lei mi volesse ancora, la risposerei. È stata ed è il mio reale angelo custode. Alla mia famiglia devo tutto, mi ha dato la tranquillità di essere fino in fondo me stesso. In questo tutto infilo anche le cose negative, che non mancano mai in una famiglia.
D – Perché ti sei sempre fatto chiamare zio Ernesto dai tuoi figli?
R – Mi fa sorridere questa simpatica domanda. “Zio Ernesto” è stato uno dei miei modi di giocare con la realtà: ad Umberto promisi un gelato ogni volta che mi avesse chiamato in pubblico “zio Ernesto”. Gli amici, meglio se amiche, avrebbero domandato: “Ma Ernesto, non sei sposato?”, ed intorno a quella domanda avrei ricamato un po’ di filosofia di vita.
D – Sei stato un grande raccoglitore di ostriche, di patelle; avevi anche un apparecchio che ti consentiva di respirare sott’acqua: perché raccoglievi così tanta roba? …per farne cosa? …qual era la motivazione che ti faceva stare sott’acqua a raccogliere fino allo sfinimento?
R – Molto tempo l’ho vissuto sott’acqua, a raccogliere frutti di mare che distribuivo agli amici, alcuni li regalavo a chi volevo che mi diventasse amico. Oltre a raccogliere ostriche, patelle, cozze, pelose e altro, sono stato anche un pescatore, la mia specialità era la coffa.
Ho avuto larghe soddisfazioni dal mare. Le mie pescate sono tutte, nessuna esclusa, finite in tavole imbandite con la compagnia dei giusti amici. Racconto un aneddoto: andai con Domenico e Rosario a buttare una coffa a Palmarola, avevo promesso ai due ragazzi che dopo avremmo dedicato la serata a calamari. Tirammo la coffa e prendemmo tre grandi cernie. A me non mi andava di passare la serata a pescare calamari e visto il bottino, riuscii a convincere gli amici a tornare in porto. Presi una cernia e la portai al ristorante da Sergio, perché la conservasse in frigorifero, e a Domenico e Rosario dissi che le altre due le andassero a tagliare in pescheria. Passai del tempo al bar, poi presi la macchine per ritornare a casa; trovai Domenico e Rosario davanti alla pescheria che stavano ancora tagliando i pesci. Mi ero dimenticato di loro, che mi dissero: “Ma che dobbiamo fare dei pesci?”. Risposi: “Bene, portateveli a casa” e loro, con un sorriso incazzato: “Ma se ce lo dicevi prima ce li saremmo venduti”.  “Lo sapevo, per questo ve li ho fatti tagliare!”, risposi.
D – Ernesto hai avuto una vita piena, sei stato sempre il protagonista tra i pescatori, tra i cacciatori, tra gli amici, tra gli ospiti, ma ti sei sempre sentito a tuo agio, sempre in armonia…. mai sopportato?
R – Capisco e comprendo la domanda, io ho avuto tanti difetti ma anche alcuni pregi, per esempio la generosità, la capacità di farmi accettare, la simpatia, l’esigenza di voler condividere con gli altri i prodotti di questo paradiso che sono le nostre isole. L’armonia cercavo di crearla io, coinvolgendo persone, stimolando discussioni, organizzando cene, pescate, incontri. Le nostre cene, oltre alla prelibatezza di quello che si mangiava, erano rappresentazioni teatrali a cui io regista facevo partecipare tutti i commensali; alla fine tutti, sazi e felici, facevano ritorno alle loro case.
D – E poi, il fisico diventa più debole, ma hai sempre una forza morale e intellettuale enorme, diventi l’esule a Palmarola. Qual è ancora la motivazione esistenziale che ti spinge a rifugiarti a Palmarola?
R – Palmarola è stata sempre la mia più grande passione. Non l’ho detto io ma grandi viaggiatori l’hanno definita l’isola più bella del mondo; io aggiungo che condensa le bellezze di Ponza e Zannone. Da sempre ho frequentato Palmarola, poi mi feci una baracca sulla Grotta dell’Acqua e questo mi stimolò a frequentarla più intensamente e per lunghi periodi.
Cominciai in questo posto a meditare e come ha scritto una mia amica sono diventato “quello che parla con il cane e con le pietre, quello che gode della furia dei temporali, quello che sa”. Anche qui riuscivo ad essere me stesso, raccoglievo asparagi e li dividevo per distribuirli ai tanti amici. Vedi, l’ispirazione è sempre la stessa, anche lontano volevo essere presente in mezzo agli amici con una piccola cortesia.
D – Ponza non ti basta più? Diventi un accanito raccoglitore di asparagi e poi uno scrittore infaticabile. Alla fine quelle enormi energie vitali finiscono sui libri. Come, perché e quando hai capito che dovevi passare alla scrittura per lasciare il segno  incancellabile  della tua esistenza?
R – Hai detto bene, quando il fisico diventa più debole, ma non lo spirito, io, ottantenne, da solo a Palmarola ho ritrovato energie nuove e mi sono tramutato in scrittore. A volte mi rattristo perché il mio viaggio sta per finire, ma debbo dire che è stato un viaggio bellissimo, ricco di vicissitudini, un viaggio che rifarei volentieri.
Vedi, Francesco, io ho cercato e sto cercando di arrivare all’ultimo porto da vincitore.
Nella mia lunga vita ho rubato ai miei amici pescatori la loro conoscenza del mare, ai contadini la loro saggezza; la mia insaziabile curiosità mi ha portato a conoscere tutti gli angoli e i personaggi di queste isole; la sete di cultura mi ha fatto leggere un’enorme quantità di libri; grazie alle mie relazioni, alla mia tenacia e alla mia passione ho raccolto tantissimi libri che parlano di queste isole.
È  vero, l’uomo è diventato tale scheggiando una pietra, ma è diventato eterno con la scrittura. Ho pensato: “Queste mie conoscenze le voglio donare ai posteri”, e ho cominciato a scrivere nel silenzio di Palmarola, ispirato dall’umore del vento e del mare.
Chissà, un giorno i miei nipoti, che io adoro, leggendo i miei libri mi rifaranno rivivere, e tanti altri ponzesi che verranno dopo, sfogliando questi libri, scritti con il cuore, potranno rivedere l’isola che c’era e ricordare con simpatia l’autore che li ha scritti.
D – Se tu potessi rinascere e vivere in questa epoca in mezzo a noi, pensi che potresti riuscire a determinare la tua esistenza in modo così completo e vitale? Puoi darci dei consigli per continuare ad amare la nostra isola in questo contesto?
R – Francesco, il dio denaro ha contaminato questa comunità, ma ogni persona deve fare i conti con se stesso, deve fare il proprio dovere per migliorare se stesso e contribuire a migliorare gli altri. L’egoismo, l’avidità alla lunga non danno soddisfazioni; alla fine, quando arriverai alla mia età, ma anche prima, a cinquant’anni, e farai il consuntivo della tua vita, dovrai mettere sulla bilancia le cose positive e quelle negative. Non sono i soldi, le case, le automobili  a nobilitare l’uomo, ma la generosità, l’altruismo, l’audacia: queste virtù ti fanno agire, potrai anche sbagliare ma sarai sempre perdonato dalla tua coscienza, perché hai agito in buona fede.
D – Ernesto, nel ringraziarti per avermi dedicato il tuo prezioso tempo, vorrei chiederti se hai paura della morte e se credi in Dio.
R- Sono io che ringrazio te per aver avuto voglia di conoscermi facendomi domande profondamente pensate. Tutti hanno paura di morire, ed io come tutti cerco di non pensarci, infatti scrivo tanto, quando non scrivo leggo, cerco di tenere in esercizio e sotto pressione il cervello perché non mi abbandoni.
Dio è stato molto generoso con me, mi ha dato una vita lunga e fantastica e non farmi dire altro. Ciao e auguri per il tuo futuro e non deludere mai te stesso.
***
Così si conclude la mia intervista ad un uomo che si chiama Ernesto: basta solo il nome, perché tutti lo hanno conosciuto, tutti lo hanno apprezzato, tutti lo ricorderanno leggendo i suoi libri.
Mio padre aveva ragione: Ernesto è stato unico, perché è riuscito ad essere felice vivendo una vita su questi scogli.
Francesco Ambrosino

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