Per la giornata internazionale della donna, ci piace omaggiare le “gaetane” di ogni età con un racconto inedito di Maria D’Agnese Magliocca che, conservando lo stile semplice e ritmato dei racconti tradizionali per ragazzi, ci mostra un interessante spaccato di vita della Gaeta dei tempi andati, quando essere donna, anziana e vedova poteva rappresentare davvero un problema. A meno che…

 IL LAVORO DELLE CORDE

   -di Maria D’Agnese Magliocca-

 Nonna Filomena passava la massima parte della giornata seduta su una mezza sedia, attorcigliando con ambo le mani i fili di quell’erba che chiamavano “stramme” , e ne ricavava corde vegetali di varia grossezza. Questo genere di lavoro era praticato esclusivamente dalle donne di modeste condizioni economiche, dal rione San Cosma in poi, verso Calegna e la Piaia. Procurava un gramo guadagno, sproporzionato alla fatica e al tempo impiegato.

Da quando era rimasta sola, Filomena viveva in casa dell’ultimo figlio, come era allora la buona regola. Per fortuna “Montano suo” aveva “capitato” una giovane rispettosa, buona e attiva, che teneva la casa come uno specchio e mandava marito e quattro figli sempre “lindi e pinti”. Si chiamava Assuntina;  per grazia di Dio sbrigava le faccende domestiche senza scomodare la suocera. Era forte e di buona salute, commentava la vecchia, che d’altronde, non se ne stava certo con le mani in mano.

E che altro poteva fare se non quelle corde vegetali? Non c’era da ricavarci un grande guadagno, si sapeva, ma almeno non sarebbe pesata sulle spalle di Montano suo!

In quel tempo non c’erano pensioni, nè di lavoro, nè sociali: i vecchi vivevano a carico dei figli rispettosi e riconoscenti, altrimenti si ritrovavano nell’ospizio della SS.Annunziata. Filomena non voleva fare quella fine e pregava il Signore di dare provvidenza e salute al figlio e farla morire con una febbre, presto presto, quando arrivava l’ora sua e presentarsi davanti alla giustizia di Dio. Intanto, finchè “si fidava”, voleva lavorare per portare il suo piccolo contributo, perchè lei sapeva che “una noce sola, dentro il sacco, non suona”. Ma senza Suntina, Filomena non avrebbe potuto fare quel lavoro. Infatti Suntina provvedeva alla materia prima, quando la domenica mattina, dopo la prima Messa, si metteva “di posta” a Calegna ad attendere i montanari d’Itri con i muli carichi di quell’erba per le corde, che chiamavano “stramme” e che era il saracchio. I “parzenali” itrani ne sistemavano quattro grossi fasci sul basto, che in tutto superavano il quintale. Suntina sceglieva il fascio con l’erba più lunga e grossa e anticipava la somma che avreebbe ricavata più che triplicata vendendo le corde confezionate dalla suocera. Così in famiglia, ogni settimana, entrava una ventina di lire in più, una vera manna sulle ristrettezze finanziarie familiari. Suntina poteva fare una “carezza” ai suoi figli che qualche desiderio se lo facevano venire: la caramella d’orzo, lo “zucazuca” di miele, un quadretto di cioccolato, quando passava la Formiana con il lungo cesto sul capo. Ma è giusto ricordare che la collaborazione di Suntina non finiva la domenica mattina. Assuntina spartiva il fascione di saracchio in tanti fasci, piccoli  e maneggevoli, che esponeva al sole. Ogni sera , con il maglio di legno, ne pestava e ripestava un certo numero che  lasciava a mollo tutta la nottata. La mattina li rialzava, li lasciava scolare appoggiati al muro e, infine, dava loro un’ ultima “ammagliatura”. A questo punto iniziava il lavoro di Filomena: seduta sulla sua sedia attorcigliava i fili tenerndoli divisi in due bandi e aggiungendo via via nuovi fili. E rimaneva là per ore, in prossimità dell’uscio di casa, dentro o fuori secondo il tempo, in modo da vedere e sentire quello che succedeva in casa e fuori, nell’aia comune della “Iella” . Ruminando un’orazione, ringraziava Iddio di averle dato una buona nuora, che preparava l’erba nel punto giusto e le sue mani non si “aggriccilivano” perchè troppo bagnata nè si ferivano perchè poco battura e ammagliata. Ogni tanto guardava alla sua sinistra il mucchio delle corde che si alzava mentre si assottigliava il fascio dell’erba. Quando si alzava da quella sedia, Filomena sentiva le natiche addormentate e doloranti; piano piano dava inizio alla piegatura del manufatto, che veniva disposto in circoli. Attorno alla spalliera della sedia si avvolgeva la corda per dodici volte, come si fa per refe o lana. Cinque di questi formavano il “mazzo”. Per le corde sottili, “glie funicieglie”, la piegatura era più complicata: prima i “mazzitti” che disposti per tre fanno “i mazzi” e quattro mazzi formano la “trocciola”. Queste trocciole, legate una sull’altra, formavano il “trocciolone” pronto per essere caricato sulla “tartana” dei commercianti napoletani. Però Suntina trovava il tempo per intervenire in questa operazione e le diceva: “Ma’, lavati le mani e va’ in chiesa al mese dei Santi Cosma e Damiano, che’ ci tengono lontano dalle malattie. Finisco io la piegatura”…

 


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