e un gruppo di ragazzi che nell’ Ottobre 1963…

Era una giornata grigia e piovosa di un ottobre ormai lontano. L’orologio segnava quasi le otto del mattino quando, noi ragazzi del gruppo di Gaeta Vecchia – tutti abitanti tra Via Ladislao, via Chiaromonte, e via Guastaferri – arrivammo davanti alla Caserma Sant’Angelo, alle prime falde di Monte Orlando, con una magnifica vista sul golfo verso Formia. C’eravamo dato appuntamento ai piedi della scalinata di San Francesco, perciò giungemmo tutti insieme all’appuntamento col nostro futuro.

Eravamo un gruppo numeroso, vi facevano parte, Aldo, Aurelio, Guido, Antonio, Corrado, Dino, Lillino, Tonino, Sergio.

Tutti amici fin dall’infanzia. Insieme avevamo deciso di partecipare a questa avventura per entrare subito nel mondo del lavoro che sembrava aspettare solo noi. Insieme avevamo preparato i “documenti”. I nostri genitori furono, nella gran parte dei casi, informati all’ultimo momento e solo perché costretti a richiederne la firma, in quanto tutti minorenni.

Davanti all’ingresso della caserma, in via della Breccia, c’erano già i ragazzi di Elena: Nicolino Ezio, Mimino, Claudio, Nicola, Enrico, Erasmo, Renato, Gaetano.

Mi feci coraggio e mi avvicinai per primo al cancello. Farfugliai il mio nome al piantone, che lo ripeté con voce alta al capoposto. Questi, un baffuto maresciallo dall’aria che mi sembrò un po’ burbera, dopo aver controllato una lista che aveva davanti, fece un cenno al piantone che apri il cancello. Entrai.

Nel cortile c’erano già altri due, i forestieri: Franco di Formia e Mimmo di Itri. Ad uno ad uno, nel giro di poco, arrivarono tutti gli altri.

Venti ragazzi tra i sedici e diciotto anni ammessi a frequentare un corso teorico pratico di qualificazione all’arte tipografica della durata di due anni. Luogo dello svolgimento del corso era la Tipografia degli Stabilimenti Militari di Pena che si trovava all’interno del carcere militare della Caserma Sant’Angelo in Gaeta, dove ci trovavamo appunto in quel momento.

Notai che quasi tutti, una volta varcato quel cancello assunsero la stessa aria smarrita e anche un po’ spaurita, che avevo già visto nei due che mi avevano preceduto. Certo la stessa che dovevo avere io stampata sul viso. Questo pensiero mi fece sorridere e allentò un po’ l’ansia che intanto avevo involontariamente accumulato.

Quando fummo al completo, un altro maresciallo, senza baffi ma con una bella panza, fece l’appello con una voce chiaramente baritonale.

“In fila per due e seguitemi, in silenzio” – disse dopo aver letto l’ultimo nome della lista, con un tono che allora mi sembrò minaccioso, ma che in seguito scoprii essere una persona assolutamente incapace di fare del male.

Ci guidò lungo scale ripide e corridoi che mi parvero infiniti. Man mano che andavamo avanti aumentava la quantità di grossi cancelli che si richiudevano alle nostre spalle, con un rumore metallico secco e sinistro al quale solo dopo molti mesi feci l’abitudine. Tutto intorno muri altissimi che impedivano di vedere ogni cosa. Grosse sbarre ovunque e sentinelle (carabinieri) armate lungo le ronde del perimetro esterno. Locali angusti e bui.

E proprio davanti ad uno di questi locali, ci fermammo. La porta era spalancata e si poteva vedere che dentro c’era solo un tavolo e una sedia, collocati proprio al centro della stanzetta, scarsamente illuminata da una finestrella, con grosse sbarre. Mentre aspettavamo guardai in faccia i miei compagni: sui loro volti c’era stupore, incredulità, gli occhi sbarrati come a dire: “ma dove siamo capitati?”

Dopo poco, arrivò un giovanotto biondino con occhialini, infagottato in una tuta color verde marcio almeno due taglie più grande di lui. Lo accompagnava un sergente, anch’esso giovane, ma bruno, alto e grosso: l’antitesi dell’altro. Il biondino si sistemò dietro al tavolo mentre il sergentone si piazzò, a gambe larghe, alle sue spalle. Ci chiamò ad uno ad uno, controllò i nostri documenti, ci fece riempire un modulo, insomma espletò tutte le formalità burocratiche per la nostra partecipazione al corso. Mentre aspettavo il mio turno notai che il sergente aveva le stellette di metallo, mentre lo scrivano aveva due stellette di stoffa cucite sul colletto.

In seguito imparai che ad avere le stellette di stoffa erano i militari detenuti. Si trattava – per lo più – di obiettori di coscienza o colpevoli di altri reati, comunque non gravissimi. Ogni giorno, scortati da sottufficiali dell’esercito, venivano smistati in tipografia o in altri reparti di lavoro come la sartoria, la falegnameria, l’officina meccanica, il laboratorio elettricità, la calzoleria ecc. Un modo eccellente per occupare il tempo della lunga giornata e imparare un mestiere, oltre l’indubbio aiuto morale per essere a contatto con il mondo esterno, attraverso gli operai e gli impiegati civili.

Un impatto con l’ambiente – vista la struttura generale né bella, né allegra – niente affatto accattivante per quei venti giovani studenti. Infatti qualcuno non resistette e dopo qualche mese abbandonò il corso. Non nego che anche per me quell’approccio fu problematico. Ricordo ancora le interminabili discussioni con gli altri compagni. Ma presto misi da parte ogni dubbio e superai ogni ostacolo relativo al particolare ambiente. Io e gli altri, senza saperlo, stavamo per andare alla scoperta di un mondo magico: la Stampa.

Quella stampa realizzata attraverso lunghi e accurati procedimenti; come l’antico metodo della “composizione a mano” che si otteneva mediante un attrezzo di metallo che permetteva di allineare i “caratteri mobili” Una lettera di fianco all’altra per ottenere una parola, poi la riga e successivamente l’intera pagina e l’intero testo. L’invenzione dei “caratteri mobili” la si deve al genio di Johann Genflish, passato alla storia come Gutemberg; nome del paese di provenienza.

Oggi, nel tempo dell’alta tecnologia, del digitale, di Internet, di Facebook, di sofisticate e complesse reti di comunicazione, rivedo col suo camice nero, lungo fino ai piedi, imponente, don Peppino Insitari: il Proto, il capo operaio incaricato della distribuzione e della ispezione generale del lavoro.

E che dire dei “Maestri d’Arte”, quasi tutti provenienti dal napoletano, che per il rispetto che gli si portava venivano chiamati per nome, ma rigorosamente preceduto dal “don”:

don Matteo, don Mimì, don Peppe, don Antonio, don Filippo, don Osvaldo, don Mario, don Giovannino e altri che chiamavamo amichevolmente solo col nome, senza il “don” perché più giovani e più vicini a noi: Giorgio, Fedele, Franco, Tatore, Gennaro, Vicienzo.

Sembra di vederli, con quella tuta blù, in piedi sulle grandi “Rapide di Lusso” – famosa e “moderna” macchina da stampa piano-cilindrica costruita dalla fabbrica torinese Nebiolo – a seguire con lo sguardo attento la caduta dei fogli fino alla presa delle pinze e poi vederli sparire avvolti sul grosso cilindro che li avrebbe fatti imprimere sulle forme di piombo o di legno sistemate sul carrello che di sotto scorreva “veloce” (una velocità buona per quel tempo).

Don Matteo, (Lamberti) era il capo reparto stampa. Il più anziano, tipica figura del “vecchio stampatore”. Tutto si doveva fare con la massima precisione e quindi lentamente senza fretta onde evitare errori. Di tradizione tipicamente napoletana, come altri amava scherzare, ricevere e fare scherzi. Durante l’ora di pranzo sua vittima preferita era il troppo buono “Oscar” (Pietropaoli), sosia spiccicato di Nicolò Carosio, un tipografo compositore, che andandosi a sedere sulla sedia a lui destinata, si ritrovava spesso con uno spillo conficcato nel sedere…. Nessuna reazione, ci rideva sopra… pensando già alla vendetta. Don Matteo era sempre pronto a fischiettare un motivetto napoletano, sempre lo stesso: ’O surdato ‘nnammurato” sicuramente influenzato dall’ambiente.

Ognuno aveva il suo motivetto preferito e non doveva fischiettarlo nessuno. Era come rubargli qualcosa di personale.

 E don Peppe (Dattilo), altro napoletano tipografo vecchio stampo. Un po’ suscettibile ma buono. Un buon Maestro. Anche lui con le sue abitudini. Amava collezionare accendini di ogni genere, che dopo un po’ rovinava perché all’interno metteva una pessima benzina rossa e puzzolente o petrolio addirittura.  Come puzzolenti erano le “cose” che fumava. Si trattava o delle super economiche “Alfa” o di sigarette fatte a mano con cartina e tabacco sfuso. Normalmente usava il trinciato forte, ma non disdegnava quello ricavato dai “mozzoni” di sigarette fumate. Insomma, aveva perennemente qualcosa che assomigliava a una sigaretta accesa tra le sue dita color giallo antico.

Amava mangiare molto. Una fame atavica. Dopo aver pranzato in mensa si faceva riempire una sua caccavella di alluminio di pasta asciutta o minestrone o di quello che c’era. Questa caccavella coperta con un tovagliolo la riponeva nel suo armadietto e prima del “fine giornata” se la mangiava. Oppure lo faceva il giorno dopo, a colazione mentre altri prendevano il caffè allo spaccio militare.

Perennemente con un quarto di “lapis” sull’orecchio e gli occhialini sulla punta del naso, sempre quelli da decenni con la “stanghetta arrapezzata” con nastro isolante recuperato dagli elettricisti. Sembrava che la conoscenza e il sapere del mondo venissero prodotti in quel momento.

 E ancora don Filippo (Nisida), anch’egli un buon maestro, proveniente da Napoli come tutti gli altri, era un po’ l’antitesi di Don Peppe. Dal carattere alquanto chiuso, lo vedeviassorto fare colazione, sbucciare la sua mela o il pane e farlo a pezzettini piccoli piccoli per via della sua non troppo “felice” dentiera. Colazione o no, con i suoi occhi incorniciati da un paio di buffi occhialini, non perdeva mai di vista le due macchine, di cui era responsabile.

Non ho mai dimenticato neanche don Mario (Maresca) era quello con cui avevamo più confidenza. Affabile e ironico, non autoritario come gli altri. Dal fisico “tarchiatozzo” e grassottello. Quando era di buon umore, camminava dondolandosi, con l’ aria di chi vuole fare la caricatura dell’incedere del  guappo: una mano in tasca e l’altra a lisciarsi i quattro peli al centro del capo pettinati alla “mascagna”. Un simpaticone. Non si arrabbiava mai.

 

E neppure don Antonio (Zaza) sempre proveniente da Napoli. Carattere un po’ distaccato rispetto agli altri. Un po’ sulle sue, ma senza superbia. Non amava il pettegolezzo o le discussioni inutili. Teneva molto alla precisione, al buon andamento delle sue macchine.

Ricordo anche don Osvaldo (Capozzi) Rispetto agli altri era un po’ più giovane. Lui comandava un l’altro reparto stampa, un po’ più piccolo. Buono di carattere, molto vicino a noi ragazzi. Sapeva ascoltare.

Oltre a questi maestri dell’arte tipografica c’erano altri “maestri” che erano a capo di laboratori di supporto alla tipografia.

Tra questi una citazione nella mia memoria la merita il “Signor Giorgio” (Bisiani). A lui il “don” non piaceva, anzi non lo capiva, era di Trieste, non napoletano come gli altri. Uomo in gamba. Dal carattere severo, a qualcuno poteva apparire scontroso e per dirla alla nostra maniera anche un po’“scassa cazzo”. Ma poteva permetterselo perché sapeva il suo mestiere. E non solo il suo, sapeva mettere le mani su ogni cosa, trovava sempre la soluzione per qualsiasi enigma. Grazie alle sue molteplici conoscenze e capacità intellettive è stato anche insegnante, di molteplici materie tecnologiche, in diversi corsi che si sono svolti negli anni successivi.

Al suo fianco, come un’ ombra lo seguiva, il fido “Maste Carluccio” (Carlo Di Stanio) meccanico e fabbro, uomo di poche parole ma anch’esso assai competente. Molto vicino a noi ragazzi compensava un po’ quel vago senso di albagia che promanava dal “Signor Giorgio”.

Quegli uomini erano per noi allievi, forse a loro insaputa, il simbolo della creatività.

Non dimenticherò mai l’atmosfera di quel posto, ambiente diventato luogo della memoria…

L’odore acre del piombo e dell’inchiostro, tipico di una tipografia, ma anche quello del petrolio, della benzina usata per lavare le “forme” sporche d’inchiostro. E ancora l’odore delle carte e cartoni, quello del sudore umano nelle giornate calde e afose d’estate oppure del fumo dei grossi bidoni come bracieri accesi nelle lunghe e fredde giornate invernali. (oggi sarebbe impensabile accendere solo una sigaretta)

Intanto il volano della “Rapida” girava veloce, mosso da una grossa cinghia legata ad altrettanto grosso motore tanto da trasmettere all’ambiente un ritmato e assordante rumore. Decine di macchine, ognuna col suo ritmo cadenzato tanto da sembrare il correre delle carrozze di un treno sulle rotaie. Ore e ore con questo rumore. Per comunicare con il compagno vicino bisognava gridare. Rumore che non intaccavano minimamente le relazioni tra noi: come giovani sordomuti comunicavano con la linguaggio dei segni.

Dietro la macchina, là dove scendevano i fogli ancora freschi ed odorosi di stampa, ci si lasciava andare con gli occhi chiusi a sognare e alle carezze del leggero venticello che i fogli, portati dalle stecche, soffiavano sul volto via via che si depositavano come foglie al suolo.

E quegli uomini dalla tuta blu erano capaci di stare ore e ore in piedi come statue sul piedistallo, quasi con l’aria di comandanti di una nave.

Tutto sembrava fantastico, quanto era stato appena impresso sui grandi fogli di carta, quello che veniva trasferito nella mente, le parole, il pensiero che diventava forma, contenuto. Un semplice biglietto da visita, un grande poster, un libro, una storia.

Anche il contro soffitto di legno del grande capannone della vecchia tipografia, completamente tappezzato da “cuppetielli di carta” – svago preferito dei detenuti che si divertivano a lanciarli, con uno spillo in punta, con delle cerbottane di cartone arrotolato, è un ricordo particolare che misteriosamente non mi abbandona, entrando non so bene a che titolo, nel grande affresco nei miei anni passati al Grafico.

Due anni trascorsi tra lezioni teoriche nelle prime quattro ore mattutine e altre quattro nei reparti per la pratica. A fine corso, la festa per la consegna del diploma, dei venti ragazzi.

Dieci si sono formati con la qualifica di “Tipografo Compositore a mano” e dieci con la qualifica di “Tipografo Impressore”.

Siamo nel 1966 e tutti con l’età buona per partire militare e quindi in attesa di chiamata alle armi!….

Ma nel frattempo, arriva un altro tipo di chiamata, il Ministero della Difesa, che aveva indetto questo tipo di scuola di formazione, decide di assumere i venti giovani ex-allievi presso la stessa Tipografia.

Successivamente, nel 1968, i militari detenuti smisero di concorrere al processo di produzione ed il funzionamento e la Tipografia degli ormai ex Stabilimenti Militari di Pena si trasferì in quel grande caseggiato sito su Monte Orlando assumendo, grazie all’arrivo del nuovo Direttore Colonnello Ignazio Comes Avezzano, il nome di Officina Grafica Militare ed il funzionamento fu prevalentemente assicurato da personale civile nei ruoli organici della Difesa in un programma di potenziamento dell’attività tipografica per rispondente alle necessità di una organizzazione industriale di media potenzialità

Le vecchie “Rapide di Lusso” vengono pian piano sostituite da nuove macchine con nuovi sistemi di stampa come ad esempio la stampa Offset. La composizione a mano e le vecchie Linotype lasciano il posto alla composizione elettronica sicuramente più veloce e pratica.

Nel 1978 viene disposta la costituzione dello Stabilimento Grafico Militare, con le attribuzioni e il nuovo ordinamento allo scopo di soddisfare le crescenti esigenze delle FF.AA. nello specifico settore tipografico.

I venti ragazzi ormai adulti prendono il posto dei “don” che pian piano lasciano il lavoro per raggiunti limiti di età.

Si susseguono altri corsi per giovani allievi. Per loro l’ingresso è ben diverso, non ci sono più detenuti nè cancelli o sbarre alle finestre. Una vera grande industria, giovane e dinamica grazie alle nuove tecnologie che avanzano di giorno in giorno.

Tanti anni sono trascorsi.

Quei ragazzi hanno superato i sessant’anni, non sono più in servizio, qualcuno è diventato nonno e nelle belle giornate di sole lo vedi sul lungomare accompagnare il nipotino al quale, indicandogli con un dito quel grande caseggiato di colore giallo su Monte Orlando dice: “non so perché, ma mi prende ‘na sorta ‘e malinconia…”

 

 Dino Bartolomeo


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