di Giuseppe Iuliano

Roma – La crisi delle relazioni geopolitiche tra le grandi potenze economiche sta scuotendo le fondamenta delle politiche economiche dell’Unione Europea, tradizionalmente basate sul surplus delle esportazioni, sulla stabilità della moneta e sui vincoli di bilancio. Il passaggio dalla spesa pubblica espansiva post-Covid a una razionalizzazione delle risorse, unito all’accelerazione di transizioni digitale ed ecologica, ha messo in luce la fragilità delle istituzioni Ue. A questo si aggiunge il divario tra le opinioni pubbliche nazionali, contrarie a un esercito comune, e le scelte delle élite europee, mentre Stati Uniti e Cina mirano a ridimensionare il ruolo del continente.

L’Europa appare oggi come un ricco aggregato di consumatori e produttori, ma privo di una governance capace di unire interessi comuni. La competizione tra imprese europee, i vincoli agli aiuti di Stato e una narrazione debole minano la sua competitività. Intanto, il ritorno del ruolo degli Stati nazionali e delle tecnocrazie, insieme a investimenti tecnologici e militari, ridefinisce gli equilibri globali, con ricadute sulla svalutazione degli asset delle multinazionali.

La precarietà delle istituzioni Ue riflette quella dei Paesi membri e delle loro forze politiche. I compromessi, come l’allentamento del Patto di Stabilità o deroghe temporanee agli obiettivi energetici, appaiono insufficienti. Una possibile via d’uscita potrebbe essere rappresentata da accordi sovranazionali tra Stati, inclusa la Gran Bretagna, per ridisegnare gli equilibri geopolitici. La recente scelta del Parlamento tedesco di derogare ai vincoli di bilancio per finanziare la difesa segna un punto di svolta, ma la mancanza di consenso politico post-elezioni evidenzia le difficoltà di rendere strutturali tali riforme. Il futuro del modello europeo, tra libertà individuali e beni collettivi, resta appeso alla capacità dei Paesi di difenderlo in un mondo sempre più competitivo.

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